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Greenwashing d’élite: come vendere coscienza a caro prezzo

C’è una nuova frontiera nella moda di lusso: l’etica. O meglio, l’idea di etica. Oggi, non basta più sfilare a Parigi o firmare una campagna con un volto noto. Bisogna “prendersi cura del pianeta”. Almeno a parole. Così, i brand più influenti — gli stessi che per decenni hanno alimentato l’iperproduzione e il desiderio compulsivo di consumo — riscrivono la narrazione e si tingono di verde. Ma non è cambiata la sostanza: è cambiato solo il modo di venderla.

Sostenibilità è la parola magica, l’etichetta elegante che legittima l’aumento dei prezzi e la costruzione di una nuova élite del consumo. Oggi si può acquistare una borsa “green” da 3.000 euro e sentirsi migliori. Non solo più ricchi, ma anche più giusti. È il trionfo del greenwashing d’élite: una strategia raffinata, che non mira a cambiare davvero il sistema, ma a dargli una patina più accettabile.

Dietro le collezioni “consapevoli” si nasconde spesso la stessa struttura produttiva: sfruttamento delle risorse, manodopera delocalizzata, materiali sintetici con un leggero rivestimento naturale. Eppure, bastano poche parole ben scelte — “responsabile”, “circolare”, “etico” — per lavare la coscienza di chi produce e illudere chi compra.

Il messaggio è chiaro: non serve consumare meno, basta consumare meglio. O almeno, così viene detto. Ma cosa significa “meglio” se la logica resta la stessa? Se si continua a sfornare collezioni ogni mese, a far credere che un abito valga solo finché è nuovo, a legare il valore di una persona a ciò che indossa?

Chi davvero lavora per una moda più pulita — piccoli atelier, artigiani indipendenti, laboratori che realizzano capi su misura e duraturi — resta spesso invisibile, fuori dal circuito mainstream. Non ha le risorse per raccontarsi in modo accattivante, non parla la lingua del grande marketing. Ma è lì che accade qualcosa di autentico. Ed è proprio lì che il sistema non guarda, perché quel modello non è scalabile, non moltiplica il profitto, non fa crescere il capitale. Fa solo bene.

Intanto, i grandi gruppi continuano ad arricchirsi vendendo “coscienza” a caro prezzo. Con una campagna ben costruita si può convertire un’intera collezione di fast fashion in un gesto ecologico. È sufficiente una parola nuova, una collaborazione, un colore giusto. E il gioco è fatto.

Sì, forse il futuro della moda potrà essere sostenibile. Ma non finché sarà l’élite a definirne i termini. E non finché il concetto di sostenibilità verrà piegato a logiche di esclusività, anziché di necessità collettiva.

Finché la coscienza sarà un prodotto da vendere, nulla cambierà davvero. Solo l’estetica della bugia.